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Immagine del redattoreMirko Scravaglieri

Mio padre non ha fatto la guerra e mi ha cresciuto sotto una teca. 

I nostri genitori, nati nel dopoguerra hanno incontrato un mondo pieno di opportunità, un mondo in cui, lavoro era una sostantivo scontato ma nel loro tentativo di dimostrare di volerci bene hanno commesso un gravissimo errore.

Mio padre nasce in Sicilia e dopo il diploma di maestro si trasferisce al nord per cercare lavoro.

Dopo un anno, nonostante le difficoltà di ambientamento e del razzismo verso i "terroni", trova la propria stabilità e inizia a costruire il proprio avvenire nella città di Vercelli, situata tra Torino e Milano.

Proprio a Vercelli incontra mia madre, anch'essa siciliana e dopo poco tempo si sposano e mettono al mondo tre figli: eccomi qui, l'ultimo della schiera.

Nonostante moltissimi sacrifici nel periodo dell'adolescenza e per via dell'adattamento al sistema del nord, posso affermare senza timore di smentita che i miei non hanno dovuto fare la guerra per sopravvivere.

Certo, le spese, la casa, mandare i figli a scuola, dal medico, le gite, i regali di natale: anche questo, in fondo, può essere considerato una piccola missione perché crescere ed educare una famiglia intera non è cosa da poco.

Però noi, in quanto figli, non abbiamo dovuto affrontare le difficoltà (seppur minime) capitate a mamma e papà e all'età di 14 anni, tutti abbiamo avuto il motorino, poi la moto a 16 e l'auto a 18.

Ancora non sapevamo cosa fosse il mondo del lavoro e già ne avevamo i benefici e questo è stato merito (colpa) dei nostri genitori.

Sono trascorsi 23 anni da quell'automobile e sebbene io le avessi donato il valore che meritava per via dei sacrifici dei miei genitori, in realtà, non l'avevo conquistata io personalmente.

Ecco: oggi mi rendo conto che non sarei in grado di affrontare la guerra, non sarei all'altezza di contrastare il nemico, di difendere la mia casa e cosa peggiore: difendere la mia famiglia.

L'unica ancora di salvezza sarebbe quella di chiamare le forze dell'ordine grazie all'impostazione automatica del mio smartphone, nulla di più e se questo non fosse abbastanza sarei morto.

Come posso io scontrarmi o anche soltanto misurarmi con chi viaggia per giorni all'interno di una stiva di una nave malconcia, che preferisce rischiare la propria vita piuttosto che lasciarsi morire lentamente, che sa benissimo che il paradiso Italia, per loro sarà un inferno fatto di difficoltà nella comunicazione, nell'integrazione per loro e sopratutto per i loro figli?

Un immigrato ha nel sangue quello che i nostri genitori avevano 50 anni fa e che per il troppo bene non ci hanno voluto tramandare.

Nessuno e ripeto nessuno vuole imparare a vendere, lavoro che permetterebbe loro di non conoscere mai la parola crisi ma si è alla ricerca di un lavoro: un generico posto di lavoro che, guarda caso, dipende da qualcuno che andrà a vendere e che se non dovesse riuscire nell'intento, chiuderà la propria azienda lasciando a casa anche te.

Il lavoro sicuro in un'azienda che rischia di chiudere da un momento all'altro: che storia.

Ci sono 2 milioni di musulmani in Italia e 400.000 sono imprenditori mentre i nostri giovani cercano un lavoro sicuro, senza troppe responsabilità perché non sono capaci di lottare e questo lo dobbiamo a noi stessi, certamente, ma anche a Rosanna, la madre di una mia ex-fidanzata che quel giorno, quando sua figlia è stata sgridata a scuola per aver commesso un errore, anziché aiutarla a comprendere la severa lezione ricevuta, ha deciso di ritirarla.

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